Qualche giorno fa, con mio marito e i miei due figli sono andata a fare un pomeriggio artistico. Ci avevano parlato di un nuovo museo chiamato Maxxi (mio marito lo chiama ” Macchesi “), così abbiamo approfittato della bella giornata di sole per andarlo a visitare.
Da fuori non è bellissimo, è un ” tipo”. Dice che l’ha fatto un’architetta irachena di tendenza e se dici che non è bello, fai una bruttissima figura e tutti ti dicono che sei ignorante.
Nella prima sala c’era un’esposizione di fotografie di gente accalcata nelle spiagge, un po’ come nelle polaroid che mia cognata scatta a Torvaianica. La differenza è che nelle foto della mostra stanno tutti nell’acqua e sono puliti, in quelle di famiglia sono tutti sdraiati e macchiati di sugo.
E poi in quelle della mostra c’è audio in sottofondo da una filodiffusione, in quelle nostre per fortuna non c’è il sonoro.
Mi è piaciuto tanto un grosso trombone di plastica lungo una decina di metri. Quell’ignorante del mio secondogenito gli si è posizionato davanti e ha fatto un rutto di prova. Sua sorella, dall’altra, ha omologato l’acustica.
Io non sono molto pratica d’arte. Mi piace, però a volte ho difficoltà a comprenderla. Ho problemi soprattutto con le “installazioni”: Panni stesi con voci di sottofondo, giornali strappati appallottolati in un angolo, diapositive con lamenti in lingue sconosciute, letti sfatti con manichini smontati.
Ho grande difficoltà anche con le tele sgocciolate, i grossi riquadri marroni e le spirali rintorcinate. La cosa che mi ha più colpito però è che molti di questi pezzi vengono da collezioni private.
Vorrei tanto conoscere il signore che ha donato il troncone di legno (a Roma lo chiamiamo “Tortòre “) con lucette di posizione. Vorrei anche fare due chiacchiere con il proprietario della statuessa che, cingendosi la ciuffa, si libera in un secchio.
Ora però devo occuparmi della carriera artistica di mio marito, perché anche lui ora è esposto al Maxxi.